Antonio Beltrán Marí è fra i più autorevoli studiosi di Galileo e i lettori
italiani lo conoscono già per la pregevole edizione del Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo, pubblicata da Rizzoli nel 2003. Ogni volta che esce
un suo libro difficilmente passa inosservato per la chiarezza
dell'argomentazione, il rigore e la passione con cui sostiene le proprie tesi e
per le polemiche che suscita. E anche questo suo ultimo lavoro non fa eccezione.
Per questo è un libro prezioso, che va letto e apprezzato, comunque la si pensi
e al di là delle sue oltre settecento pagine, non sempre necessarie. E ne indico
la mole non per incutere chissà quale spavento al lettore, ma per sottolineare
che se il libro fosse stato sottoposto a una drastica cura dimagrante ci avrebbe
senz'altro guadagnato.
Nel leggerlo, mi sono tornate alla mente le lettere
che l'«impiegato» Calvino scriveva, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ai tanti
letterati o aspiranti tali che facevano pervenire i loro manoscritti alla casa
editrice Einaudi. Come questa, per esempio, del 5 ottobre 1964, inviata a uno
sconosciuto Carlos Alvarez: «Caro Alvarez, mi sono deciso ad affrontare il tuo
manoscritto, nonostante la diffidenza che mi ispirano i manoscritti troppo
grossi. Cosa ti prende di scrivere tanto? Tu sei molto handicappato da un fatto:
che hai facilità di scrivere. La letteratura nasce dalla difficoltà di scrivere
non dalla facilità ». Anche se qui si parla di un saggio storico e non di un
romanzo, trovo che le parole di Calvino si adattino perfettamente al libro di
Beltrán Marí. Ed è un peccato, perché il libro c'è, e c'è perché possiede una
tesi forte che si fonda su una solida conoscenza delle fonti. Per questo le
pagine sul funzionamento dell'Inquisizione, sui gesuiti e l'Università di
Padova, sul copernicanesimo e la Chiesa prima di Galileo, e su tante parti della
sua biografia intellettuale e scientifica, scritte" e si sente" con la "penna
facile", non aggiungono nulla al libro: anzi, ottengono l'effetto contrario, lo
indeboliscono perché hanno il sapore del già letto.
Il primo capitolo è uno
dei più belli e prende spunto da un'importante e recente, ma spesso passata
sotto silenzio, scoperta archivistica. Per ironia della sorte, nel 1992, proprio
nello stesso anno in cui a Roma si riabilitava solennemente Galileo e lo si
consacrava uomo di scienza e di fede, a Padova un insigne studioso francescano,
padre Antonino Poppi, pubblicava alcuni documenti dell'Archivio di Stato di
Venezia relativi a una denuncia contro Galileo e l'eterodosso filosofo
aristotelico Cesare Cremonini. Si veniva così a sapere che la prima denuncia
contro lo scienziato non era quella rilasciata al Sant'Uffizio romano dal
domenicano Tommaso Caccini il 20 marzo 1615, da cui prese avvio la vicenda
destinata a condurre al decreto anticopernicano del 5 marzo 1616; ne esisteva
invece una che risaliva a ben undici anni prima, al 21 aprile 1604. Quel giorno
Silvestro Pagnoni, che abitò per diciotto mesi nella casa di Galileo e fu al suo
servizio con il compito di copiare le dispense da distribuire ai numerosi
studenti che frequentavano le lezioni private, si presentò spontaneamente ai
giudici dell'Inquisizione di Padova per accusare il suo padrone di esercitare
l'astrologia divinatrice e di «vivere hereticalmente». Pagnoni riferiva di
averlo più volte «osservato», cioè spiato, e di averlo visto andare a messa una
sola volta, e pure quella volta allo scopo di incontrare un amico. Non solo: da
sua madre aveva anche saputo che «mai si confessa et si communica», e avuto
l'incarico di seguirlo nei giorni di festa, dichiarava sotto giuramento che «in
cambio de andare alla messa andava da quella sua putana Marina veneziana».
Il
procedimento non ebbe nessun seguito. L'intervento del governo veneziano mise
tutto a tacere, considerando «leggierissime et di nessun momento» le accuse
contro i suoi due illustri professori. Resta però il fatto che simili accuse mal
si conciliano con l'immagine dell'uomo profondamente religioso restituita da
tanta stampa cattolica. Forse è più corretto sostenere che Galileo non era
incline a certe pratiche devozionali; o si dovrà concludere, come fa Beltrán
Marí, riprendendo il giudizio di un autore oggi dimenticato come Antonio Banfi,
che il problema religioso gli era estraneo.
Qui si tocca il cuore del
problema; e siamo solo all'inizio. Perché l'intero libro di Beltrán Marí entra
in rotta di collisione con l'immagine di un Galileo simbolo del concordismo tra
religione e scienza. Ovvero, di un Galileo religioso, uomo devoto e pio e" come
se non bastasse" anche sinceramente pentito.
Questa immagine ha avuto una
lunga fortuna nel Novecento, segnata com'è dal tentativo cattolico di
riconquistare la massima icona della scienza moderna. Attraverso uno studio
attento dei documenti processuali del 1616 e del 1632-33, Beltrán Marí ci
dipinge un Galileo che lotta disperatamente per proseguire in autonomia nel suo
lavoro di scienziato e filosofo. Ne uscirà sconfitto, ma non tanto per una
questione giuridico-procedurale (il famoso precetto del Sant'Uffizio in cui si
proibiva a Galileo di difendere e insegnare la teoria copernicana, e che
l'autore considera un falso), quanto perché la sua nuova cosmologia e filosofia,
se non fossero state bloccate, avrebbero avuto ripercussioni dirompenti non solo
nell'ambito scientifico ma anche in quello morale (a causa del loro spiccato
antiantropocentrismo) e sociale (per il ridimensionamento dell'autorità dei
teologi e la conseguente modifica nella gerarchia dei saperi accademici).
Talento e potere, appunto: uno scontro politico di prima grandezza.